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"Ritorno alla vita" esperienza personale di dismissione farmaci, di Anna Fiori

Anna Fiori ci ha inviato questo brano, originariamento scritto per l'edizione italiana di "Coming off Psychiatric Drugs" Peter Lehmann edit., libro di cui attualmente disperiamo poterlo vedere stampato.
Anna ha avuto la rara fortuna di imbattersi in uno psichiatra che anziché raccomandare imporre psicofarmaci-per-sempre, la ha invece consigliata ed aiutata a smetterli totalmente. Nonostante la nostra convinzione che sia è meglio una totale diffidenza, un non contarci affatto, rispetto la psichiatria e gli psichiatri, riconosciamo ed auspichiamo queste mosche bianche rarissime ...


Ritorno alla vita

Biografia:

Anna Fiori ha 30 anni ed è laureata in ambito umanistico. La psichiatrizzazione è avvenuta nei primi anni di università e nei periodi migliori ha comunque portato avanti gli studi, laureandosi in ritardo. Attualmente lavora in ambito editoriale/ culturale e arrotonda le sempre magre finanze con lavoretti occasionali di quasi qualunque tipo.

Elenco farmaci:

Neurolettici: Zyprexa, Trilafon, (Akineton).
Antidepressivi: Anafranil, Seroxat, Elopram, Prozac, Remeron.
Ansiolitici: Xanax, Lexotan, En, Tavor.
Ipnotici: Minias, Nopron.
Antiepilettici: Topamax.

Dopo anni di psichiatri, cliniche, ospedali e psicofarmaci la decisione di smettere è nata dal sentimento di assurdità che provavo per tutto quello che stavo vivendo. Nel corso del tempo i farmaci continuavano a cambiare, a crescere in quantità, a mescolarsi in nuovi cocktail, ma tutto quello che vivevo era sempre e comunque la desolazione, il vuoto, e la parte più vera di me, se mai si era manifestata, era semplicemente scomparsa.
Ora, a distanza di alcuni anni, vedo le cose con molta più chiarezza, anche se recuperare certi ricordi rimane molto doloroso. E dolorosa è soprattutto la consapevolezza del tempo perso e dei danni subiti inutilmente.
Nonostante siano due anni ormai che non assumo più psicofarmaci, sento che il mio corpo e la mia mente non hanno ancora completato il processo del risveglio e a volte ancora mi stupisco di come si possano “sentire” certe sensazioni che prima erano attutite, ovattate o più semplicemente cancellate. In sostanza mi sono trovata a dover imparare a vivere, mentre prima a malapena vegetavo. E non è facile.

La decisione di smettere è nata verso la fine dell’ultimo ricovero che, se pur risulta formalmente volontario, nei fatti è stato come un T.S.O. Mi hanno infatti minacciata dicendomi che se non avessi accettato di buon grado di rimanere lì mi avrebbero fatto un T.S.O e mi avrebbero legato al letto. L’esperienza di questo ricovero mi ha tolto l’ultima dignità, mi ha annullato come persona, mi ha privato quasi della libertà di pensare. E intorno a me vedevo altre persone nelle mie condizioni o addirittura in condizioni peggiori.
A parte l’ambiente, gli strumenti di contenzione, lo scherno di certi medici e infermieri, sono stati sicuramente i farmaci a ridurmi in quello stato. Neurolettici, antidepressivi, ipnotici. Anche prima prendevo farmaci, a volte in dosi pesanti, ma questo nuovo cocktail era stato il colpo di grazia a tutta la mia persona. In particolare non avevo mai preso l’Olanzapina.
Più tardi, molto più tardi, ho capito che i neurolettici vengono somministrati appositamente per piegare la volontà, per cambiare il modo di pensare. Allora, mentre li assumevo, non lo sapevo e sentivo che le ultime mie forze psichiche mi abbandonavano. Credevo che fossero i sintomi di un’imminente follia. Mi sono ridotta ad una larva, ad una bimba bisognosa della mamma. Non pensavo a nulla, non provavo nulla, non sentivo nulla. Sulla cartella clinica di quel periodo leggo: “vacua, infantile”. E sicuramente apparivo così, ma non certo perché la mia vera indole fosse così.
L’antidepressivo che mi veniva somministrato aveva come effetto collaterale il farmi aumentare l’appetito in modo spropositato. In quel periodo tra l’altro soffrivo di disturbi alimentari e quel farmaco ha avuto l’effetto di esasperarli. Naturalmente all’epoca non sapevo neppure questo. Non sapevo di questo effetto collaterale, non sapevo neppure che farmaci mi venivano somministrati o a cosa servissero. Di nuovo ho pensato che quell’improvvisa brama ossessiva di cibo fosse “colpa” mia. Il che in una persona che ha problemi a rapportarsi all’alimentazione scatena l’inferno.
Nel mese del ricovero e nei successivi mesi di assunzione del farmaco sono ingrassata di 24 kg, per poi perderli di colpo non appena cambiato antidepressivo. Gli effetti di tutto questo sulla mia psiche sono stati a dir poco devastanti.
Mentre ero ricoverata ero sola, isolata da tutti. Per volere dei medici non potevo ricevere visite, a parte quella dei miei genitori, ma anche questo all’epoca non lo sapevo. Io credevo che nessuno avesse desiderio di venire a trovarmi, mi sentivo abbandonata. Ora so che anche quello era parte di una strategia volta a “piegarmi”, come mi dicevano.
Nelle nebbie del mio cervello e dei miei sentimenti pian piano si faceva strada solo un pensiero. Questa non è vita. È questo che mi fa male, sono i farmaci, gli psichiatri, gli ospedali che mi stanno distruggendo. Devo riprendere in mano la mia vita, pensando con la mia testa, sentendo con il mio corpo.
Avevo dei problemi prima di incontrare i farmaci, e i farmaci non li avevano certo risolti, anzi li avevano peggiorati.
In quel reparto ho visto persone di 40-50 anni che avevano passato tutta la vita nella condizione nella quale io ero in quel momento. Ho visto uomini, donne, vecchi, giovani che erano stati costretti con la violenza a rassegnarsi a quello che ormai consideravano il loro destino. Del resto erano solo dei pazzi, giusto?

Non so cosa mi ha dato la forza di prendere la mia decisione, forse la disperazione, forse un estremo istinto di vita che credevo di non avere più. Vivere a quel modo era equivalente a non vivere. Non avevo più niente da perdere.
Per uscire da questa situazione che sentivo totalmente assurda ho provato a parlare ai medici, che non mi ascoltavano e non mi ricevevano (n.b.: la mia “diagnosi” in quel luogo era stata fatta senza avere neppure un colloquio con me). Ho provato a parlare ai miei genitori che si rifiutavano di starmi a sentire. Tanto ero pazza! Sia ai medici che ai genitori dicevo di voler provare a ridurre i farmaci, perché volevo vivere con le mie forze, pensare e sentire con le mie facoltà. Ho provato a spiegare che sentivo che i farmaci mi facevano male. In quei giorni svenivo spesso.. a volte facevo fatica a trattenere la saliva, mi sentivo come avvolta nell’ovatta.
Inutile dire che tutti hanno considerato questo pensiero malato. Un altro sintomo, semplicemente.
All’inizio ho odiato i miei genitori, poi ho capito che ci vuole una forza di volontà e un coraggio enorme per liberarsi dalla psichiatria, visto anche lo strapotere che ha nella nostra società.
Ho odiato anche i medici, sordi e insensibili, ingabbiati nelle loro teorie preconfezionate e incapaci di vedere gli esseri umani che avevano di fronte. Tutt’ora provo rancore per quei medici, per le cose che mi hanno detto e fatto e che qui non è luogo per raccontare. Ad oggi credo che sia estremamente difficile pensare con la propria testa quando sei inserito in un sistema che ti dice come e cosa pensare. La vita sembra più semplice, ma non ti rendi conto di quante esistenze stai invece distruggendo.

Ho preso da sola la mia decisione, è stata la più saggia che abbia mai preso e ancora oggi mi stupisco di come abbia potuto, nella prostrazione più totale in cui ero, formulare un pensiero così coraggioso.
Sono sempre stata una persona sincera e trasparente, convinta che l’inganno non porta da nessuna parte, ma a volte la vita ti porta a valutare altre strade… Ho deciso che avrei semplicemente finto. Ho cercato di capire cosa gli psichiatri volevano da me e cosa avrebbe fatto loro piacere che facessi o dicessi.
Con la nausea dentro di me e un senso di repulsione per le parole che mi uscivano dalla bocca, per giorni ho ripetuto che mi ero pentita dei comportamenti che mi avevano portato al ricovero. Ho ringraziato i medici perché mi avevano fatto capire che ero sulla cattiva strada, ho detto che volevo collaborare, che volevo “diventare una persona normale” (ho detto proprio così… io…) , che volevo risolvere i miei problemi con il loro aiuto. Col passare dei giorni si sono ammorbiditi. Cercavo di girare per il reparto e partecipare ad alcune insulse attività proposte. In una decina di giorni sono riuscita a farmi dimettere.
Inutile dire che alla sofferenza che provavo per i miei problemi, si aggiungeva la fatica della continua menzogna.
Appena uscita mi sono documentata su quella che era la mia diagnosi. Ricordo che è stata formulata senza mai parlare con me… e per molto tempo mi sono chiesta se le diagnosi le decidessero estraendo un bigliettino da una ruota.
Su questo voglio fare una precisazione. Nel corso di 6 anni di psichiatrizzazione mi sono state fatte almeno 8 diagnosi diverse, e il medico successivo negava sempre la diagnosi del medico che lo aveva preceduto.

Ad ogni modo mi sono informata sulla diagnosi, DSM alla mano, ho letto anche alcuni semplici saggi scientifici, ho visto quali erano i sintomi e gli indicatori di guarigione. E così ho preparato la mia maschera.
Ogni volta che andavo ai colloqui ai quali ero obbligata a recarmi mi inventavo un pezzettino della mia guarigione, raccontavo dei piccoli progressi.. Non sempre ci riuscivo, a volte la sofferenza mi schiacciava.
Ho iniziato anche ad adulare sottilmente la psichiatra che mi seguiva e ho scoperto che è una cosa che ai medici fa enormemente piacere. Secondo me si sentono quasi divini, possedendo la Verità sulle nostre menti.
Con il passare del tempo ho chiesto di ridurre i farmaci, che era il mio obiettivo primario (il mio obiettivo a lungo termine era di liberarmi completamente sia dei farmaci che dei controlli psichiatrici e fare finalmente la mia vita).

I farmaci sono stati ridotti una prima volta di molto poco e lì non ho sentito grossissime variazioni, o forse solo variazioni a livello di chiarezza mentale. Ero un po’ meno “larva”, pensavo un pochino di più.
Il momento peggiore è stato dalla seconda riduzione in poi. Il secondo giorno di scalaggio sono stata così male da dover andare al pronto soccorso. Avevo tolto una mezza compressa (sempre su indicazione della psichiatra) alla sera. E il pomeriggio di due giorni dopo ho cominciato a vomitare, per ore, e non riuscivo a stare in piedi. Mi faceva male la pelle di tutto il corpo (difficile immaginarlo se non ci si è passati). Mi sono fatta portare al pronto soccorso, dove hanno detto che non c’erano cause evidenti per quello che mi era successo. Un medico poi mi ha chiesto se prendevo farmaci.. e gli ho fatto la lista. Mi ha detto che la causa potrebbe essere da cercare proprio nei farmaci, sosteneva che probabilmente mi facevano male.
Riferito l’episodio alla psichiatra, mi ha risposto che forse era influenza intestinale, che quel medico del pronto soccorso non capiva nulla e di continuare a prendere con fiducia i farmaci...
Da parte mia continuavo con le mie letture sui farmaci e la psichiatria. Dopo un paio di settimane mi sono resa conto che forse quella che avevo avuto era stata una piccola crisi di astinenza. Mi sono spaventata per la potenza che avevano quelle piccole pasticchine sul mio corpo e sulla mia mente. È stato da quell’episodio in poi che ho cominciato a riappropriarmi veramente di me. Forse quell’ulteriore scalaggio mi ha fatto tornare al di qua del mio personale limite, quel limite oltre il quale il farmaco ti annienta.

Nei giorni successivi a questo episodio mi sentivo sensibilissima. Sono sempre stata una persona molto sensibile, ma questa situazione sfiorava il parossismo. Qualsiasi cosa mi toccava, mi feriva, mi irritava, sia nella mente che nel corpo. Fare una passeggiata e vedere le foglie cadere dagli alberi mi commuoveva fino alle lacrime. Un abbraccio di mia nonna mi faceva sentire un senso di affetto quasi opprimente, una sensazione di amore universale e totale. Anche sul lato corporeo sentivo tutte le sensazioni amplificate. Un giorno stavo riempiendo una cesta con dei legnetti per accendere il caminetto, erano piccoli e leggeri e me ne è caduto uno su un piede. Avendo le scarpe non avrei dovuto neppure sentirlo. Eppure ho sentito un dolore così forte da tapparmi la bocca per non urlare.
A volte mi toccavo un braccio e mi stupivo di sentire così fortemente che il mio corpo mi apparteneva. Anche le sensazioni di fame e sazietà erano piuttosto normali. Il ciclo, che durante il periodo di assunzione dei farmaci, era sempre sballato, si andava regolarizzando. Rinascevo.
Uno dei problemi principali era il sonno: nel periodo di psichiatrizzazione più intensa ero arrivata a dormire anche 19 ore al giorno, per poi stabilizzarmi sulle 12. Con lo scalaggio ho cominciato a dormire sempre meno. Per mesi ho dormito 4/5 ore a notte, a volte solo 3, continuando a dire alla psichiatra che dormivo un po’ meno, ma che era tutto ok. Ovviamente non era tutto ok, la mancanza di sonno, unita forse all’astinenza, mi faceva diventare nervosa, irritabile, contratta. In certi periodi mi sentivo come un drogato che aveva bisogno estremo della sua dose. E a pensarci bene era esattamente così. Giravo per la mia stanza o per casa (quando non c’era nessuno…) come un uccello in gabbia. Più volte sono stata tentata di prendere dei farmaci per sentirmi meglio.
In quel periodo ho avuto molti mutamenti fisici. Con i farmaci che prendevo prima soffrivo costantemente di una forte stitichezza. Dallo scalaggio in poi, soprattutto verso la fine, avevo spesso diarrea. Facevo fatica ad assimilare il cibo ed ero dimagrita ulteriormente (complice il nervosismo e la mancanza di sonno). Durante il periodo di assunzione di farmaci avevo la pressione sempre molto bassa, ora anche quella stava tornando a livelli normali.
Vivevo sopraffatta dalle sensazioni emotive e corporee, sperando solo di trovare un equilibrio, nel terrore che la prolungata assunzione di farmaci lo avesse distrutto per sempre.

Pensandoci adesso mi rendo conto che i ricordi della mia vita sotto farmaci non sono simili ai ricordi di altri periodi di vita in cui non li assumevo. Sono diversi come quantità e come qualità. Ricordo molte meno cose e soprattutto le ricordo in forma diversa. Ricordo eventi, ma non mi ricordo le sensazioni collegate a quegli eventi. Oppure mi ricordo solo delle sensazioni di malessere e disagio, ma non di quelle piacevoli. È come se il farmaco mi avesse tolto una parte della capacità di sentire spontaneamente, mi avesse portato via una parte di me, mi avesse spenta, strappandomi i fili che collegano tutti noi alla vita. Il farmaco mi abbassava la soglia della percezione, livellava la mia vita emotiva, eliminava intere gamme di sfumature.
A ripensarci, in tutti quegli anni non ho mai provato curiosità o stupore, non mi sono mai innamorata, non mi sono mai commossa per un film.
In quegli anni ho anche preso decisioni che ora so che non avrei mai preso se non fossi stata sotto l’effetto di farmaci. Guardando indietro e pensando alle cose che ho fatto capisco quanto una sostanza chimica ti possa cambiare radicalmente la personalità e rovinare la vita.

É difficile rendere a parole quel periodo e ancora più difficile era fingere con la psichiatra che andasse tutto bene. Essendo le mie sensazioni, emozioni e pensieri così intensi, anche i miei problemi mi sembravano amplificati. Le cause del mio malessere mi opprimevano.
La mia fortuna è stata che i colloqui con la psichiatra duravano 20 minuti ed erano molto formali e standardizzati. Cercavo di rilassarmi prima, mi facevo una forte camomilla, magari andavo a correre per sfogarmi… in modo da non far trapelare niente che non volessi mostrare.
Ogni volta che ripenso al mio stato di allora e alla mia finzione, mi chiedo se sia possibile che la psichiatra non si sia mai accorta di niente. Questo per me rimane un mistero. Sicuramente a lei non importava personalmente di me, era solo il suo lavoro, ma era davvero una persona così poco acuta?
Forse semplicemente la mia voglia di libertà era così forte da trasformarmi per quei 20 minuti in una perfetta attrice. Mi stupivo che fosse così facile.

Seguendo questa strategia ho smesso lentamente quasi tutti i farmaci (in tutto ho impiegato un anno a smetterli del tutto). Alla fine mi sono trovata da sola con i miei problemi, che ora almeno vedevo e sentivo nella loro autenticità. Ora mi era chiaro che nessun farmaco avrebbe potuto migliorare la mia condizione. Quello che avevano fatto le pilloline miracolose era stato annullarmi, prostrarmi, annientare i miei pensieri e i miei sentimenti. Un automa non ha problemi: più semplice di così...
Quello è stato il periodo più difficile: ero quasi senza farmaci e tutto quello che i farmaci avevano sedato per anni era tornato prepotentemente a farsi sentire.
Nonostante tutto è stato allora che sono stata giudicata “guarita” e ho chiesto alla psichiatra di non andare più ai controlli. Mi sono voluta però togliere una curiosità. Prima di andare via per sempre da quello studio le ho chiesto: “La diagnosi che figura sulla mia cartella clinica è stata fatta dopo 9 giorni dal mio ingresso in ospedale. Nessuno psichiatra ha mai avuto un colloquio con me in quei giorni. Com’è possibile formulare una diagnosi senza mai parlare con il paziente?” Lei mi ha risposto: “Quando ricoveriamo una persona siamo costretti (per politica ospedaliera) a formulare una diagnosi. Nel tuo caso l’abbiamo fatta solo guardandoti, ma ne potremmo aver formulata ugualmente un’altra diversa, ad esempio sarebbe andata bene anche questa (...) o quest’altra (...)”.

In quel periodo mi facevo forza sulla convinzione che io non ero malata di una qualche malattia mentale. Non ho mai creduto al mito della malattia mentale, né per me, né per nessun altro. Io avevo solo dei problemi e avevo bisogno di risolverli. Ma avevo una mia dignità, i miei pensieri e le mie sensazioni erano degne di esistere, erano reali e vere e non banali “sintomi”. Mi sono insomma autolegittimata. Se nessuno mi dava dignità di essere quella che sono, mi davo questa dignità da sola.
Mi ha aiutato moltissimo anche entrare a far parte di una community on line dove si discuteva delle esperienze con la psichiatria. Dove per la prima volta ho scoperto che non ero la sola a pensare che l’impianto psichiatrico fosse dannoso, assurdo e offensivo per la dignità delle persone. Un posto dove altre persone cercavano di recuperare la propria vita senza psicofarmaci. Questo mi ha dato un’enorme forza, sentire che le mie idee erano condivise, che qualcun altro le portava avanti mi ha dato fiducia. Parlare con altri che condividevano quello che dicevo, che mi ascoltavano senza darmi della pazza è stata per me una marcia in più. Ho scoperto un mondo sommerso che criticava la psichiatria ufficiale, in modo coerente e organizzato, con precise basi scientifico-filosofiche. Un pazzo da solo è solo un pazzo, ma cento pazzi insieme possono ancora essere chiamati solo pazzi?
Grazie a questo sito internet ho cominciato a leggere alcuni scritti di autori dell’antipsichiatria e ad ascoltare qualche conferenza dove si dibattevano esattamente i problemi che io mi ponevo in quel periodo. In particolare ho trovato interessante il pensiero di Giuseppe Bucalo (ad esempio: Sentire le voci. Guida all’ascolto; Dietro ogni scemo c’è un villaggio. Itinerari per fare a meno della psichiatria; Malati di niente. Manuale minimo di sopravvivenza psichiatrica) e di Giorgio Antonucci (ad esempio: Il pregiudizio psichiatrico; Pensieri sul suicidio). Per me è stato importante anche il sito di Peter Lehmann e il materiale che vi ho trovato, come pure la lettura di un libro di Ronald Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale.

La mia ipersensibilità continuava, spesso scoppiavo a piangere per un nonnulla o avevo fortissimi dolori alla schiena, agli arti, all’addome. Di nuovo ero tentata di assumere farmaci. Non solo, alcune volte ho avuto il dubbio che forse quei farmaci mi “servivano” e che non avrei mai potuto vivere senza.

Qualche mese dopo ho avuto l’enorme fortuna di conoscere un medico che mi ha decisamente cambiato la vita. Mi è stato presentato da un amico comune che, senza che io gli chiedessi niente, mi ha detto: “Vai e parlaci. Non è un medico come tutti gli altri”.
Si trattava di uno psichiatra fuori dal comune, che non mi ha mai prescritto farmaci sia per mio volere sia perché mi ha detto: “Tu non hai bisogno di psicofarmaci, tu hai bisogno di parlare”.
E così è stato, ho parlato tanto con lui. Finalmente mi sentivo libera di essere me stessa senza fingere e semplicemente mi sono sentita accolta per quello che ero. Non avevo paura che mi costringesse a prendere farmaci o che mi ricoverasse.
Gli ho parlato della dismissione dei farmaci e delle difficoltà fisiche che avevo avuto (ipersensibilità, nausea, dolori). Il medico sosteneva che questi problemi erano in parte frutto del rebound e in parte erano emozioni che si ripercuotevano sul corpo.
Ho provato a prendere degli antidolorifici, ma non mi facevano praticamente niente. Mi è stato consigliato di svolgere attività fisica, di fare lunghe passeggiate, cose insomma che mi rilassassero e distraessero. Quando stavo molto male cercavo di parlare con qualcuno per sfogarmi e buttare fuori tutto il cumulo di emozioni che non ero più abituata a sentire e che quindi mi scombussolavano. Piangere mi faceva stare meglio, e anche scrivere. Ho fatto un ciclo di agopuntura, e ho provato dei preparati erboristici rilassanti.
Tutte queste cose insieme hanno un pochino alleviato i dolori e i disturbi. Sono cose semplici, quasi banali, che però sono servite ad ascoltarmi, a sentirmi di più e a non combattere con il nuovo essere con il quale mi trovavo ad avere a che fare. Non c’è sicuramente stata una cosa miracolosa che mi ha fatto sparire i dolori, le ansie, le paure. Un po’ è stato il tempo: a mano a mano che il corpo si disabitua ai farmaci e perde la dipendenza riprende a funzionare da solo.. e a me già questo sembrava un miracolo. Un’altra parte importante ha avuto la presa di consapevolezza del mio corpo, dei miei pensieri e dei miei sentimenti. Per anni mi sono sentita dire dagli psichiatri che in me c’era qualcosa che non andava, tutto veniva letto come sintomo di varie malattie mentali, come devianza dalla norma. Ora finalmente provavo ad accettarmi così com’ero. Non mi importava più se ero diversa o strana, ero semplicemente in un dato modo, e questo modo di essere era rispettabile come qualsiasi altro. Questo valeva anche per il corpo: accettare di avere questi dolori e non combatterli me li ha fatti sopportare più facilmente.

La cosa più importante comunque è che sono andata alla radice dei miei problemi, cosa che non avevo mai fatto. Nessuno più ha badato ai “sintomi”, ma centrale era solo la storia di vita e l’unicità della persona. Non ho mai sentito parlare di diagnosi, il dialogo era alla pari.
Affrontare i problemi non è stato facile, parlare di certe cose ancora meno. Non vorrei che sembrasse una passeggiata. Nel periodo in cui ho parlato e parlato di tutto, la paura e l’angoscia erano così forti che ho iniziato a soffrire di attacchi di panico. Quel medico mi ha prescritto dell’Alprazolam, ma solo in caso di bisogno, precisando che non doveva essere una “cura” continuativa. L’ho preso solo 3 o 4 volte in quei mesi, quando proprio non ce la facevo più, e poi altre 2 o 3 nel successivo anno.
Con l’andare del tempo sentivo molto prima quando era in arrivo una crisi e ho imparato ad evitarla ascoltandomi di più, capendo cosa mi faceva male ed evitandolo, scrivendo, oppure telefonavo al medico. Usavo spesso preparati naturali con erbe rilassanti, uniti a delle tecniche di rilassamento mentale. Una di queste consisteva più o meno in questo: quando sentivo che l’ansia si trasformava in panico e il panico cresceva, mi isolavo, mi stendevo sul letto e mi mettevo le mani sulla pancia. Immaginavo la paura come un’ondata alla quale il mio corpo e la mia mente non dovevano opporsi, semplicemente la lasciavo fluire, crescere e poi decrescere. Mi facevo degli automassaggi, mi coccolavo. Insomma, accettavo la paura.

Sono convinta che sia stato il dialogo che mi ha salvato. L’assumere psicofarmaci non ha fatto altro che peggiorare la situazione, perchè mi ha impedito di pensare e sentire cose che dovevo elaborare: esattamente il contrario di ciò di cui avevo bisogno.
Ma alla psichiatria questo non importa: essa è un grande apparato che controlla la vita delle persone al fine di uniformarla ad un modello. Tutto ciò per poterla più facilmente gestire. E il pensiero autonomo è un pericolo.

Ormai sono 2 anni che non assumo psicofarmaci e ho imparato a gestire i miei malesseri e i miei problemi con le mie forze. A volte chiedo aiuto agli amici e soprattutto il parlare mi fa un gran bene. Non mancano i momenti di crisi, ma questi vanno via via diradandosi. Trovo una grande differenza tra le crisi che avevo quando ero sotto farmaci e quelle che ho ancora adesso (sempre più rare). Prima, quando ero in crisi, la sofferenza mi sembrava senza fine, eterna, non vedevo uno spiraglio di luce. Ora invece so che le crisi passano, che sono un momento, solo un momento nella vita. Soffro comunque, ma so che questa sofferenza finirà. Attribuisco questa differenza alla maggiore lucidità, alla maggiore autoconsapevolezza che mi dà il vivere libera dai farmaci.

Ho un grosso rimpianto per il tempo perso, per quel tempo che non ho vissuto perché avevo la mente e il corpo legati da questa camicia di forza chimica che sono gli psicofarmaci. Io credo che quando passi un periodo di vita sotto psicofarmaci è come se quel tempo venisse messo tra parentesi. E infatti ho molte cose da imparare e da capire che in quegli anni non ero in grado neppure di cogliere. Ho passato l’adolescenza e la prima giovinezza in quello stato e ora mi trovo adulta solo anagraficamente, senza il bagaglio di esperienze che dovrei avere.

La psichiatria ha in mente un certo modello di persona, vuole che tutti pensino e si comportino in un determinato modo. Chi esce da questi schemi è malato e quindi è lecito usare ogni tipo di violenza per riportarlo “sulla retta via”. Mi sento diversa da questo schema (psichiatrico) di persona, ma per me non è (più) un problema. Non mi interessa conformarmi ad un modello standard in cui non credo, perchè non ha niente di reale. E soprattutto è dannoso e limitante per la libertà delle persone. Dalla mia storia ho imparato che per quanto io sia strana, atipica, e a volte faccia fatica a fare cose che dovrebbero essere naturali.. vado bene così. E nessuno ha il diritto di affibbiarmi una diagnosi e provare a cambiarmi. Perché credo che alla fine sia esattamente questo che fa la psichiatria: usare i farmaci e la forza (la violenza) per cambiare le persone, così come richiesto dal sistema. Se ora mi sento libera è solo perché ho detto addio ai farmaci e alla psichiatria.


Copia di questo brano è anche nel "Libro in collaborazione" 'Come difendersi dalla psichiatruia' brano http://nopazzia.anti-psichiatria.com/node/488

La redazione di No!Pazzia redazione@nopazzia.it 1 marzo 2009

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